Disegnare il lager

Mentre Una stella tranquilla si prepara alla pubblicazione, mi viene voglia di raccontare un po' come ho lavorato per questo libro. Lo faccio qui, e inizio dalla parte più difficile.

Quando ho cominciato a pensare a un fumetto su Primo Levi, avevo già deciso questo: niente lager, niente Auschwitz. L'ha già raccontato lui, e in più è una cosa per me impossibile da immaginare, figuriamoci disegnarla. Quindi niente. È anche per questo che Una stella tranquilla inizia dal 19 ottobre del 1945, dal giorno in cui Levi torna a Torino dopo la deportazione, dalla fine de La tregua. Però, naturalmente, il lager è dappertutto nell'opera di Levi. In qualche modo bisognava raffigurarlo. C'era l'enorme precedente di Maus, però Art Spiegelman era stato molto attento: con la metafora dei topi (gli ebrei) e dei gatti (i nazisti) aveva evitato di disegnare gli esseri umani, i loro corpi e i loro volti. Insomma, ho pensato, non è necessario disegnare il lager, basta evocarlo. In alcuni punti del libro, perciò, ho usato una fotografia che c'era veramente nello studio di Levi: la foto di una recinzione in filo spinato presa da non so quale lager.

Solo una volta ho disegnato le baracche di Monowitz, il campo in cui si trovava Levi. Ma è una sequenza in cui in realtà si racconta un sogno, e comunque ho usato delle foto e non ci sono persone.
C'erano delle frasi di Levi che volevo rendere in qualche modo. Ad esempio al centro di Se questo è un uomo, nel capitolo più importante, dove Levi parla dei "sommersi", della grande massa di prigionieri che non si sono salvati, c'è un'immagine: «Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero». Partendo da questa frase era facile disegnare dei prigionieri senza volto.
Però quel «popolano la mia memoria» mi restava dentro. Come doveva essere portarsi dietro quell'immagine, quella ferita, per tutta la vita? Cosa c'era nella memoria di Levi? C'è anche un'altra frase che Levi ha ripetuto spesso, in varie interviste, una frase che gli disse una volta un amico: «Quel periodo lo hai vissuto in technicolor, mentre il resto della tua esistenza è stata in bianco e nero». Non avevo idea di come rendere questa cosa finché una mia amica non mi ha fatto scoprire l'opera di Zoran Music, un pittore sloveno internato in lager come prigioniero politico. Music ha fatto lo stesso percorso di Levi, solo che al posto della scrittura ha usato i disegni. Quando era in lager e subito dopo disegnava come ossessionato da quello che vedeva (soprattutto cadaveri). Allo stesso modo Levi aveva già iniziato a scrivere Se questo è un uomo dentro il lager, rischiando per questo la vita (scrivere era proibito). Dopo molti anni Music tornò a disegnare quei corpi, in una serie di dipinti intitolata Non siamo gli ultimi. Allo stesso modo, anche Levi tornò a scrivere del lager, con il saggio I sommersi e i salvati. Ho pensato che questi disegni fossero quanto di più vicino possibile alle immagini che Levi doveva avere nella sua memoria. Quindi non mi sono fatto remore a copiarli (anche se io ho usato la matita nera e i pastelli a cera) e a usarle per illustrare i passaggi del libro in cui si parla di Se questo è un uomo e di I sommersi e i salvati.


Quindi ho fatto l'operazione inversa rispetto a quella indicata da Levi: il lager in bianco e nero, il resto in technicolor (vabbè, è un colore solo). Mi viene in mente la battuta di Wim Wenders: la realtà è a colori, ma il bianco e nero è più realistico. Vale anche per il fumetto.