Gioventù bruciacchiata: intervista ad Alessandro Tota

In attesa del suo nuovo lavoro, Palacinche, in uscita a febbraio, ecco tutto quello che dovete sapere su Alessandro Tota. Qui sotto un'intervista fatta da me (una versione ridotta è uscita a novembre 2011 su Fumo di China), in cui si parla di fratelli, di yeti e anche di Batman.
Quando ho letto Fratelli, il nuovo libro di Alessandro Tota, ho pensato per prima cosa che fosse un omaggio affettuoso a tante cose passate: Bari (la città in cui Alessandro è nato nel 1982), la fine degli anni '90, l'adolescenza, le giornate passate a far niente, magari alla ricerca di un po' di fumo, in un sottobosco popolato da personaggi affascinanti ma quasi sempre border-line. Un omaggio anche a un certo modo di fare fumetti, da Robert Crumb ad Andrea Pazienza. E invece mi sbagliavo: Fratelli non guarda al passato ma al futuro, tanto che Alessandro sta già immaginando una specie di seguito. I due racconti che compongono il libro, così, diventano uno spartiacque perfetto per parlare del percorso fatto fin qui e dei nuovi progetti di uno degli autori più prolifici di casa nostra. Dopo la favola di Yeti e l'underground di Fratelli, a febbraio arriverà in libreria Palacinche, un diario di viaggio realizzato insieme alla fotografa Caterina Sansone che ripercorre l'itinerario di un'esule fiumana, metà fumetto e metà libro fotografico. Tre libri in tre anni, o meglio “tre libri in trent'anni!”, come dice Alessandro.
Fratelli, il racconto che apre il tuo nuovo libro e gli dà titolo, era uscito nel 2007 nell'antologia Gli intrusi (Coconino Press). All'epoca avevi scritto, forse sul tuo blog, che era la tua prima storia...
La mia prima vera storia, sì. Quello che avevo fatto fino a quel momento erano prove, esperimenti, quasi sempre zoppi, tranne forse qualche storia del diario che pubblicavo sul blog.
Il secondo racconto e l'intermezzo che completano il libro quando li hai disegnati?
Quando ho disegnato la storia per Gli intrusi dovevo farne subito un seguito, solo che l'editore francese con cui ero d'accordo in quel periodo mi ha messo in stand-by: e Fratelli io volevo darlo solo a un editore che ritenessi adatto per quel tipo di progetto. Quindi invece di andare avanti per i fatti miei ho messo tutto in pausa e ho fatto Yeti (il graphic novel uscito nel 2010 per Coconino Press). Mentre lavoravo a Yeti, l'editore Cornelius mi ha contattato per Fratelli: ho fatto il libro con loro, ma in questo modo è passato un sacco di tempo.
Com'è stato ritornare a quel racconto?
Ho avuto un po' di problemi a riprendere in mano i due personaggi della prima storia, Fratelli. Il problema non era gestirli narrativamente: sono due personaggi che maneggio bene, dovunque li infili sembra nascere una storia. Però i loro volti sono quelli di me e mio fratello, e non è sempre facile usarli, è una tecnica un po' suicida. Volevo sentirmi libero: non volevo scatenare uno scandalo familiare! Così ho cominciato a lavorare su una storia diversa, parallela. Nel secondo racconto del libro, Una promessa non mantenuta, volevo raccontare i posti, le circostanze, l'atmosfera che c'era a Bari quando io ero adolescente, negli ultimi anni '90. Sono anche tornato nel mio liceo - all'inizio del libro doveva esserci una lunga scena ambientata lì - ho fatto un giro per i corridoi, e ho riprovato esattamente l'emozione che provavo a 17 anni, ed era terribile!
Quindi lo spunto da cui sei partito per i due racconti è differente...
In Fratelli c'era un desiderio esplicito: volevo che fosse come un soggetto per un film alla Age & Scarpelli (il duo di sceneggiatori storici della commedia all'italiana, da I soliti ignoti di Monicelli a C'eravamo tanto amati di Ettore Scola, ndr). Li avevo riscoperti da poco e mi ero accorto che erano dei narratori eccezionali. Volevo fare qualcosa del genere. Invece in Una promessa non mantenuta l'idea era quasi paesaggistica, volevo rappresentare un modo di vivere, infatti la trama è molto esile, viene dopo rispetto al desiderio di far rivivere l'emozione di allora. La prima scena che ho scritto è quando Claudio è sulle scale e fa il discorso del metadone: all'inizio avevo solo questa e non avevo bene idea di dove andare a parare.
Il discorso del metadone, da Fratelli
Nel frattempo però hai pubblicato Yeti, che è disegnato in modo abbastanza diverso da Fratelli. Ma fare questo nuovo libro per te è stato un tornare indietro, al tuo stile precedente, oppure è un modo di disegnare che pensi di mantenere anche in futuro?
I miei registri non sono tantissimi, sono tre o quattro, e non mi serve un grande sforzo per passare da uno all'altro. Ad esempio Palacinche, il libro a cui sto lavorando con la fotografa Caterina Sansone, ha uno stile ancora un po' diverso, è un'evoluzione dello stile dei diari (uscirà il 10 febbraio, in occasione della Giornata del ricordo, per Coconino Press/Fandango, ndr). In questi anni ho lavorato su diversi fronti e ho creato delle strutture che riesco a gestire bene, a cui mi sembra di poter tornare in qualsiasi momento. Per adesso non ho mai provato ad allontanarmi troppo da questi registri. Lo stile di Fratelli lo manterrò anche in futuro, perché vorrei fare almeno un altro libro su Bari. Ho cominciato a lavorare a una specie di libro gemello, che si dovrebbe chiamare Gattuso (uno dei personaggi di Fratelli, ndr). In fondo Fratelli è una raccolta di racconti, mentre Yeti è una favola: vorrei fare qualcosa usando le strutture del romanzo, possibilmente senza perdere le specificità del mezzo. Alla fine non conosco tanti libri italiani in cui questo sia stato fatto.
Hai già un'idea di come dovrebbe essere Gattuso?
Vorrei fare un libro quasi di avventura, però ambientato a Bari. È un libro di fiction, ma la persona a cui mi ispiro è vera. La sua vita è ricostruita da quattro persone che l'hanno conosciuto: è l'evoluzione di questa persona, che in pochi anni compie un percorso che lo porta verso una morte abbastanza atroce. Però non sarà un libro triste, tutt'altro.
A proposito di Bari, mi sembra che le vicende di Fratelli potrebbero svolgersi in qualsiasi città medio-grande del sud. Quanto è importante Bari in questo libro?
Quando si fa una storia “locale” è importante non cadere nel localismo e isolare quegli elementi che possono essere universali, che possono interessare a tutti. A me faceva piacere essere preciso nella rappresentazione dei luoghi, ma in effetti la storia potrebbe essere ambientata in qualsiasi città medio-grande di quegli anni.
Una Bari in versione notturna tratta da Fratelli
L'atmosfera ricorda un po' Riportando tutto a casa, il libro di Nicola Lagioia pubblicato da Einaudi nel 2009 e ambientato a Bari negli anni '80, di cui Fratelli potrebbe quasi essere il seguito... Ma tu ci torni a Bari, sai com'è cambiata la città?
Ci torno tre volte l'anno, ma i miei amici hanno tutti preso un cammino diverso dal mio, molti sono andati via, altri li ho persi di vista. Non so dirti com'è la vita dei giovani adesso. Quando non sei più un ragazzino non puoi sapere cosa succede per strada, perché non hai più tempo da passare in giro. Chi lo sa dove va un ragazzo di 17 anni quando esce di casa? È vero che c'è un legame con il libro di Nicola Lagioia, tanto che a dicembre a Roma abbiamo presentato Fratelli insieme.
In tutti i tuoi libri finora ci sono elementi autobiografici. Questa mi sembra una costante in molti degli autori di oggi, è come se venisse automatico rappresentare se stessi. Però mi sembra che tu su questa cosa abbia ragionato...
Forse molti della mia generazione si sentono autorizzati a parlare di se stessi perché negli ultimi decenni ci sono stati artisti importanti che l'hanno fanno, creando un genere. Io ho tenuto un diario a fumetti per un po', sul mio blog. Ho fatto un gran numero di pagine ma a un certo punto ho smesso di pubblicarlo. All'inizio erano storie comiche ma poi è diventato un massacro, perché quello che ti passa per la testa non è sempre uno spettacolo edificante e tantomeno interessante per gli altri. A un certo punto non avevo più motivi di pubblicarlo, e di conseguenza anche pochi motivi per disegnarlo, così ho smesso. Per parlare di me ho bisogno di indossare una maschera, o più maschere. Non è detto che un personaggio monologante sia il modo più efficace di esprimere la propria visione del mondo. Un'architettura elaborata e personaggi in conflitto, con diverse visioni del mondo, può rivelarsi un sistema più congeniale. E comunque nel caso dell'autobiografia il gioco non vale la candela: se si è sinceri si rischia sempre di far incazzare qualcuno a cui si vuol bene.
Però ci sei tu anche in Yeti, e anche in Palacinche, il tuo prossimo progetto...
In Yeti non sono io, è un personaggio che mi somiglia: è un ruolo che interpreto, un po' come un regista che appere in un suo film... Palacinche invece è un diario di viaggio: io e Caterina siamo due reporter e ripercorriamo l'itinerario seguito dalla famiglia di Elena, la mamma di Caterina, dall'esilio da Fiume al difficile inserimento in Italia. Le scene in cui compariamo noi servono a fare andare avanti la storia, a dare un certo spirito e in qualche caso anche a mostrare quali sono i valori che reggono la famiglia di Elena.
Due tavole tratte da Palacinche
Forse nel tuo caso è più corretto dire che parti da spunti autobiografici, ma poi le storie vanno in un'altra direzione. È un po' quello che è successo con Yeti? Mi racconti com'è nato il pupazzone rosa protagonista?
Con Yeti volevo conciliare spinte diverse: raccontare Parigi e utilizzare un personaggio fantastico. Avvicinarmi al pubblico francese, e allo stesso tempo mantenere alcune costanti del mio modo di lavorare. Il risultato è un ibrido, e forse il suo interesse sta anche in questo. Il personaggio è nato per caso, da un quaderno di schizzi, poi l'ho riutilizzato, frullandolo con alcuni passaggi del diario, e con alcune cose prese dai libri di Tomi Ungerer.
Il pupazzone rosa protagonista di Yeti
Torniamo a Bari: l'hai lasciata nel 2000 per studiare all'Accademia di Belle Arti di Bologna: in quel momento sapevi già che volevi fare fumetti?
C'è stato un momento in cui ho provato a fare il pittore, all'inizio dell'Accademia, ma è stato un delirio durato pochi mesi perché i professori non si sono fatti problemi a dirmi che ero scarsissimo. Al di fuori di un'esigenza narrativa non riesco a disegnare: non porto avanti un discorso puramente formale. Anche quando faccio l'illustratore devo trovare una dinamica di narrazione, altrimenti non sono a mio agio.
Poi a Bologna hai iniziato l'esperienza della rivista Canicola...
Sì, facevo parte del gruppo iniziale. Edo Chieregato, Andrea Bruno e Liliana Cupido hanno contattato una serie di disegnatori per fondare la rivista: loro hanno delineato le linee generali del progetto, che poi è stato modificato dal nostro apporto. Poi c'era una serie di incombenze pratiche che abbiamo diviso fra di noi. All'inizio il lavoro di Canicola andava per votazioni: Edo, Liliana e Andrea erano quelli che davano più stimoli ma poi si decideva assieme. È stata una vera rivista, nel senso che abbiamo veramente prodotto assieme. Poi quando ci siamo separati, perché siamo andati a vivere in altre città, la rivista ha avuto una trasformazione, resa palese dal cambio di formato, e adesso Edo e Liliana fanno un lavoro da editori. In ogni caso Canicola è stata la mia prima esperienza nel mondo del fumetto a livello professionale. All'inizio ero completamente sedotto dall'influenza degli altri, la mia prima storia per la rivista era qualcosa di molto lontano da quello che avevo fatto prima e avrei fatto dopo. Cercavo il dialogo con gli altri disegnatori. È stata un'esperienza importante dal punto di vista della maturazione artistica, ma anche a livello umano.
Il gusto per le sperimentazioni, e anche per l'autoproduzione, però ti è rimasto. All'ultimo Bilbolbul circolavano degli albetti disegnati da te: era una specie di parodia di Batman, o sbaglio?
Batman è una mia passione, quando posso faccio questi albetti autoprodotti, che sono una specie di metafora di alcune cose che succedono nella mia vita, usando l'universo dei supereroi (una breve storia con il finto Batman protagonista è comparsa su Internazionale n.924, ndr).
Quindi veramente ti metti una maschera! Ma c'è anche una cassetta allegata agli albetti: cosa c'è nella cassetta?
Nella cassetta c'è un album musicale, inascoltabile, che ho registrato una sera con degli amici musicisti. Loro sono molto bravi: poi ci sono io che canto e urlo come un disperato.
Se non sbaglio, una di queste storie è stata stampata da Papier Gaché in Francia: mi spieghi che cos'è Papier Gaché?
È una rivista/editore di Parigi, molto piccola e agguerrita. Con un lavoro fatto in casa, e quasi senza un soldo, riescono a tirar fuori una delle migliori riviste che girano in Francia. Hanno anche organizzato una bellissima mostra sulle fanzine in una biblioteca di Parigi.
A proposito di Parigi, per gli autori italiani rimane sempre una specie di terra promessa. In Francia riesci a vivere disegnando?
Faccio il letterista e diversi lavori di illustrazione. Non riesco a vivere solo di fumetto, è praticamente impossibile con il tipo di fumetti che faccio io. Tutti vogliono sapere se in Francia si vive di fumetto, e la risposta è NO. Allora perché sono qui? Perché qui c'è un mercato dell'editoria più vasto, e quindi ci sono più possibilità in generale, più speranze di crescita, ma questo non significa che sia facile e che non si debbano fare anni e anni di gavetta.
Yeti mi sembra sia andato molto bene...
Benissimo, è stata un po' una sorpresa: in Italia la prima tiratura è andata esaurita subito, e anche in Francia è andato abbastanza bene. Spero che adesso i lettori non siano spaventati dal cambio con Fratelli. Sono curioso, secondo me non è un libro difficile... certo, è un tipo di libro in cui ho corso qualche rischio in più, ma spero di essere riuscito a risolvere in maniera semplice le sequenze più complicate. 
Cosa pensi del panorama attuale del fumetto italiano?
È un momento ottimo e spero che gli autori italiani non sprecheranno l'opportunità che stanno avendo. D'altro canto mi auguro che gli editori non comincino a produrre in maniera sfrenata perdendo il controllo qualitativo. Adesso come non mai dobbiamo stare attenti a fare dei libri “forti”, perché questa situazione privilegiata non capitava da anni. Adesso c'è una scena e c'è un pubblico, per quanto piccolo sia. Nei siti di letteratura si parla di fumetti, ed è verso quel pubblico che bisogna andare, sono quei lettori che dobbiamo portare dalla nostra parte. 
Forse in questo momento la cosa più importante è riuscire ad arrivare a un pubblico più ampio, no?
L'ideale sarebbe mantenere due forme di pensiero allo stesso tempo: un pubblico ampio è un obiettivo auspicabile, ma allo stesso tempo non bisogna dimenticare che i libri non sono elettrodomestici, e seguono strade diverse. Ti faccio un esempio: quando Black Velvet pubblicò Non mi sei mai piaciuto di Chester Brown, nel 1999, in qualche modo quel libro arrivò fra le mie mani. Non so quante copie avranno venduto all'epoca, non c'era un grande mercato per questi libri. Pubblicarlo non fu una mossa commerciale, ma un atto d'amore verso quel libro. Io l'ho letto e si è spalancata una porta, c'è stato davvero un cambiamento nella mia vita. Per me l'underground da un lato era Robert Crumb, dall'altro Andrea Pazienza e il fumetto italiano di grande impatto visivo. Chester Brown per me è stata una rivoluzione, una nuova via: mi ha fatto capire che esisteva una narrazione più delicata, che nei racconti si potevano introdurre certe emozioni, mentre io non pensavo fosse possibile. È come se qualcuno ti insegnasse delle parole nuove, e di colpo la realtà si arricchisse. Se Fratelli andasse in mano a un solo ragazzo di 16-17 anni, e lui si riconoscesse nel libro, e arricchisse la sua visione della realtà, per me sarebbe un risultato eccezionale. (©Pietro Scarnera 2011)